C’è stato un tempo in cui Rino, più giovane, ha scalato le montagne, precedendomi di decine di metri mentre io arrancava sui sentieri. Quante discese col bob ha fatto insieme a me Rino? sprofondato nelle coperte di pile e lana dentro lo zaino, a folle velocità di ritorno da qualche escursione, riusciva perfino ad addormentarsi, tanto era sereno.
Rino è un cane di montagna: arcigno e resistente come tanti valligiani.
Ha resistito ad ictus e attacchi cardiaci, ha saltellato sopra le vipere arrostite al sole, è caduto svariate volte dalle scale ed è stato puntato da una lince in un parco in Austria e dalla poiana che ogni tanto sorvola Lou Donn.
Rino ora è vecchio e questo gelo lo mette in difficoltà: se gli proponi di uscire a passeggiare, si rifugia in qualsiasi antro lo possa nascondere; se insisti e lo porti nel piazzale o fino a giù nel bosco, cammina a tre zampe, sollevandone a turno una per impietosirti.
Ma nelle giornate di tepore, Rino si arrampica su nel terrazzamento dietro casa a prendere il sole, arrotolandosi tanto da divenire una piccola pallina nera, poco più che una zolla sollevata dagli scavi delle talpe. Se lo spii, ti accorgi che a volte si stiracchia e guarda lontano, con l’espressione inebetita. Pensa alla sua prima vita, quella di prima che lo trovassi in quella specie di cantiere-discarica tanti anni fa, e alla sua seconda vita, quella delle avventure che abbiamo vissuto insieme. Ora non sembra più chiedere niente dalla vita; mi ricorda mio nonno, che come tutti i nonni non faceva altro che rimuginare sul passato e commuoversi ascoltando le canzoni di un tempo.
In un moto d’orgoglio Rino si è arrampicato sulla scalinata ghiacciata che conduce al campicello, è salito quei due o tre scalini ricoperti da una spessa e dura superficie di neve ghiacciata, mi ha osservato con i suoi occhi impalliditi dalla cataratta ed è ridisceso. Come un calciatore sudamericano che dribbla una volta in più solo per autocompiacimento e per esaltare la folla, il bel gesto di Rino era totalmente inutile: la temperatura era già scesa a temperature polari e quel minuto di follia (forse gli si era solo congelato il cervello, in effetti) era totalmente fine a se stesso. O forse no: voleva che lo osservassi e lo osannassi per la sua tempra.
Ho provato pure io ad arrampicarmi: gesto utile solo a cadere e battere le tibie sul ghiaccio. Rino non mi ha visto, stava cenando.
In montagna, a meno che tu non sia Rino, il calcio sudamericano non funziona: si difende tutti quanti dietro la linea della palla, a maglie strette, si recupera la palla e la si lancia lontano, al portiere avversario, giusto quei pochi secondi per rifiatare prima del nuovo assalto. Il forcing finale, nei minuti di recupero, è forsennato e devi resistere raspando la terra coi tacchetti: è quasi finita, te lo ripeti nei momenti peggiori; è quasi finito questo inverno.
Piccoli piacevoli “pensierini” che riportano ai luoghi della mia vita. Sappi che al mattino, quando apro questa maledettissima “macchina da guerra” io compaio accanto a voi, come uno gnomo del bosco, e come ogni buon nonno esprimo, scuotendo la testa, il mio giudizio è il mio ricordo. Ciao, a voi, da Milano con la neve, ore 4,30 del mattino.
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Ciao! Grazie del tuo commento 🙂 Che piacere! Allora ogni tanto farai una capatina tra i castagni a spiarci 😀 Un abbraccio
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