Un anno fa di questi tempi ci preparavamo a venire a Lou Donn a trascorrere qualche giorno, pieni di interrogativi sul da farsi. Di fronte a noi c’era la prospettiva di un cambiamento radicale nella nostra vita. Un cambiamento che, grazie a quella breve “vacanza”, ci si preannunciava fatto di neve, tubi ghiacciati e strade interrotte.
Sapevamo, dunque. Chiamatela avventatezza, oppure ingenuità, ma eravamo consci di quello che l’inverno successivo ci avrebbe preparato. E così tutti gli altri inverni che verranno. Essere consci non significa essere preparati. Non eravamo preparati a tutto, questo è certo, e l’estate con la sua frescura e la sua calma ci ha viziato.
Lou Donn non è in alta montagna, non è in qualche valle desolata inaccessibile al consorzio umano. È solo un gruppuscolo di case in mezzo al bosco, ad un chilometro dalla modernità. Ma ogni metro che ti allontana dal fondovalle in direzione della borgata è come un passo verso quel cuore di tenebra che si cela dentro ciascuno di noi. E come il Kurtz di Marlon Brando o l’originario signor Kurz di Conrad cedi al ricatto seducente della Natura, che ti ipnotizza con l’offerta di un’onnipotenza infinita. Tanto che la rotabile ti sembra un fiume verso l’abisso e ti aspetti di veder comparire Willard o qualche indigeno.
Ecco perché è così difficile staccarsi da Lou Donn. Perché quando ti trovi altrove ridiventi uno, piccolo e trasparente.
Questo post è scritto in pianura, lontano da quel gruppuscolo di abitazioni che da qualche mese chiamo casa. Sono cresciuto in pianura e il vedere le montagne solo laggiù in fondo, schiacciate contro lo sfondo del dipinto, non mi ha mai intimorito o creato disagio. Ma stavolta è diverso.